Julián
In albergo, dopo l’improvvisata di Sandra, apparentemente non successe niente. Per la via di fuga, o strada alternativa che dir si voglia, arrivai al primo piano e da lì presi l’ascensore fino al piano terra, recandomi alla reception come se venissi direttamente dalla suite e chiedendo a Roberto chi mi aveva chiamato, visto che non aveva risposto nessuno dall’altro capo. Roberto alzò le spalle dicendo che da lì non era partita nessuna telefonata. Non gli credetti del tutto. Roberto, come era logico, stava più dalla parte di Tony che dalla mia. Mi incamminai verso gli ascensori e, arrivato al punto in cui Roberto non poteva più vedermi, proseguii fino al bar e individuai Tony con Martín, grande e grosso anche se non quanto l’altro.
Aveva i capelli rasati quasi a zero e un tatuaggio sulla nuca, basette sottilissime che gli arrivavano al mento, un completo grigio scuro o nero con un buon taglio ma stranamente indossato con scarpe da ginnastica - magari era la moda - e, al posto della camicia, un maglione nero a collo alto. Tony aveva un completo classico che però, paragonato all’altro, appariva scadente. Parlavano con una certa confidenza, ma siccome non potevo indovinare quel che dicevano e non volevo essere sorpreso a spiarli, sgattaiolai verso gli ascensori e per il momento finì tutto così.
Lo sforzo di andare tanto in fretta per scale e corridoi mi aveva messo sottosopra. Per cena mangiai un’omelette al bar di sempre e al ritorno chiamai mia figlia dal telefono pubblico dell’albergo. Erano così tanti giorni che non parlavo con lei che all’improvviso ebbi paura che le fosse successo qualcosa. Ero troppo preoccupato per persone che non conoscevo e stavo trascurando quelle realmente importanti, per le quali significavo qualcosa. Era stato sempre così. «Sempre» significava da quando ero entrato nel campo. Tutto quello che avevo conosciuto a partire dal campo rientrava nella parola sempre. Da allora mi ero dedicato più a quelli che mi avevano fatto del male che a quelli che mi amavano, e c’era sempre stato qualcosa di più urgente che stendermi sulla spiaggia a guardare mia figlia crescere o mia moglie che si spalmava la crema con lentezza e precisione.
Lei mi diceva: quando gli anni passeranno e ti renderai conto delle cose davvero importanti ti pentirai. Le cose importanti sono quelle che poi ti rimangono involontariamente in testa. Una giornata di sole, un buon pranzo, una passeggiata al tramonto. Raquel aveva ragione, finché il tempo non passa non sai cosa è stato importante nella tua vita. Mi era rimasta impressa l’immagine di mia figlia da piccola che giocava nel cortile della scuola mentre la guardavo da dietro la staccionata, e anche quella di Raquel che il venerdì sera si faceva bella prima di andare al cinema e poi a cena fuori.
Mia figlia stava bene, ma era molto preoccupata per me. Mi chiese perché diavolo non mi decidevo a comprarmi un cellulare per essere rintracciabile e poi se mangiavo bene, se mi ero fatto misurare la pressione in qualche farmacia, se controllavo il livello di zuccheri nel sangue, le classiche cose che si chiedono ai vecchi zucconi. Le dissi che non ero mai stato meglio e che la questione della casa stava andando avanti. Le dissi che mi ero fatto degli amici e fui sul punto di parlarle di Sandra, di dirle che avrebbe potuto essere mia nipote, ma siccome lei non poteva avere figli mi sembrò crudele uscirmene con un’affermazione del genere. Le dissi che si trattava di un gruppo di persone che viveva in una residenza per la terza età e che lì c’erano molti nonnetti che cercavano di sparare le ultime cartucce.
Mia figlia non se la bevve del tutto, ma lasciò perdere perché voleva crederci, desiderava con tutte le forze che fossi un vedovo pensionato pieno di voglia di divertirsi e di godersi il tempo che gli restava. Il problema è che avrebbe riattaccato perplessa perché mi conosceva e sapeva che non rientrava nei miei calcoli divertirmi e basta. Prima di «sempre» avrei potuto farlo, ma ormai era impossibile. Gli esseri insignificanti e mediocri come Hitler non potevano sopportare che altri esseri umani sapessero trarre dalla vita più linfa e piacere di loro: per questo non volevano solo abbatterli e annichilirli, ma anche togliere loro la voglia di vivere. Hitler voleva che il mondo fosse orribile. E da quel momento era stato per sempre tale per molte persone. Anche per me il mondo si era trasformato in un posto che poteva diventare orribile, se solo qualche potente ne avesse avuto voglia.
Aprii la porta della stanza. Non era entrato nessuno. Forse per quella notte il mondo sarebbe stato abbastanza tranquillo. Dalle finestre che davano sulla terrazza si vedevano le stelle, il raggio laser di alcune discoteche e i nuvoloni neri che si dissolvevano in un’oscurità profondamente azzurrata. Accesi l’abat-jour che stava vicino al letto.
Con il nuovo giorno, però, con la luce, sarebbe venuta l’azione. Non volevo perdere la pazienza in attesa dei risultati delle analisi, così aspettai fino a sera, per timore che al laboratorio sospettassero più del dovuto.
Per sfruttare la mattinata andai al Nordic Club, dove solitamente Fred e Otto giocavano a golf con altri vecchi nazisti stranieri e simpatizzanti spagnoli. C’era anche Martín, e più tardi si unì al gruppo anche l’Anguilla. Giocava anche lui. Era vestito per l’occasione e aveva modi delicati. Martín si limitava a guardare, ma tutti gli altri parlavano. Forse stavano parlando di Sandra, perché a un certo punto Fred diede un colpo secco a terra con la mazza, come se gli fossero saltati i nervi. Gli altri si ricomposero senza fare molta attenzione al gioco e uno di loro colpì la palla, mandandola lontano. Li osservai finché non si allontanarono verso le altre buche e a quel punto tornai in macchina. Non potevo farmi vedere dopo aver saputo da Sandra che avevano una mia foto; se non altro, non potevo far venire loro ancora più voglia di togliermi di mezzo.
Mentre mi accingevo ad aspettare che qualcuno di loro uscisse per seguirlo, mi venne in mente che adesso che erano tutti riuniti sarebbe stato il momento giusto per controllare cosa faceva l’algida Frida. Sarei passato prima dalla casa che condivideva con Martín e gli altri, anche se a quell’ora lei era sicuramente a casa di Fred e Karin a fare le pulizie. Avrei dovuto agire con grande attenzione, perché da quanto mi aveva raccontato Sandra avevano distribuito la mia foto ai membri della Confraternita. Probabilmente era un modo per metterli in guardia o per chiedere la mia testa. Impossibile dire se sapessero chi ero, dal momento che neppure i miei lo sapevano, ma avrebbero potuto dedurlo facilmente dal fatto che a dimostrare tanto interesse nei loro confronti fosse una persona della loro età, una persona che non avrebbero potuto ingannare.
Sandra mi aveva detto che Frida lavorava tre ore al giorno, dalle otto alle undici, e che a volte rimaneva di più, se c’era bisogno. Perciò mi fermai accanto alla piazzetta guardando verso Villa Sol. Erano le undici meno dieci, e dovetti aspettare solo fino alle undici e cinque. Poi la vidi che chiudeva il cancello e montava in bicicletta. Lasciai che si allontanasse un po’ e iniziai a seguirla. Capii subito che stava andando a casa di Otto e Alice. Il grande cancello nero del numero 50 si aprì e lei entrò. Aspettai un po’ e poi mi dissi che era una sciocchezza montare la guardia, visto che Frida si sarebbe certamente fermata per un bel po’. Invece feci bene ad aspettare: a volte l’intuito è più potente della ragione. Ne ebbi conferma quando vidi una grossa Audi tirata a lucido uscire dal cancello. Frida era alla guida e accanto a lei c’era Alice.
Dove stavano andando? Avevo paura che Frida mi scoprisse e mi riconoscesse, perciò procedetti dietro di loro con una stretta allo stomaco fino alla strada principale. In una via vicino al porto si fermarono davanti a un piccolo negozio di artigianato con l’insegna TRANSILVANIA. Alice scese per prima dalla macchina con un’agilità ammirevole. Aveva i capelli lisci fra il castano chiaro e il biondo che le arrivavano all’altezza del collo, un paio di jeans e un trench di pelle, forse eccessivo per il clima levantino ma certamente molto intonato all’Audi. A giudicare dal suo portamento nessuno le avrebbe dato più di cinquant’anni. Frida la raggiunse subito, con le gambe muscolose fasciate dentro calze nere sotto i pantaloni corti: era un abbigliamento sconcertante. Si guardò alle spalle per controllare la strada ma non riuscì a vedermi. Entrarono nel negozio, prima Alice e poi Frida. Dopo un po’ uscirono con una scatola di cartone che Frida teneva tra le braccia. Era chiusa: non era la tipica scatola che serve solo per portare le cose fino alla macchina e di cui io stesso mi ero servito molte volte. Al supermercato mi mettevano spesso la spesa in uno scatolone perché la potessi trasportare più facilmente, ma non era questo il caso. Per un attimo fui indeciso se seguirle o entrare nel negozio, poi con una certa rapidità realizzai che il negozio sarebbe rimasto aperto anche nel pomeriggio. Feci manovra con una perizia che mi stupì, senza paura di urtare né la macchina dietro né nessun’altra. Se avessi raccontato a Leónidas, il mio amico di Buenos Aires, le avventure che stavo vivendo mentre lui giocava a carte, non ci avrebbe creduto. Non mi presi il disturbo di nascondermi: erano tanto impegnate nella loro discussione che non si sarebbero comunque accorte di me.
Ci mettemmo quasi mezz’ora ad arrivare agli appartamenti Bremer. Una vera fortezza di lusso con una rigida vigilanza all’ingresso. Anche gli odori e i rumori che provenivano dai muri ricoperti di fiori sembravano emanare più classe degli altri.
Ma come potevo capire se ci avevo visto giusto, se la scatola che avevano preso in quel negozio conteneva le famose siringhe? Le mie erano solo supposizioni. E il pensiero del laboratorio e dei risultati delle analisi mi rendevano così nervoso che non riuscivo a star fermo.
Le guardie del complesso Bremer alzarono la sbarra per far entrare l’enorme e splendente Audi di Alice. In qualche modo sembrava che Salva mi stesse guidando dal passato. Mi preparai ad aspettare dentro la macchina con la bottiglia d’acqua accanto: non avevo di meglio da fare né un altro posto in cui andare. Il mio amico Salva aveva fatto quegli stessi percorsi? Ignoravo come avesse fatto, dovendo dipendere dai taxi. Doveva essere stato molto difficile. Io almeno guidavo e non dipendevo da nessuno. Mi dissi che Salva al posto mio avrebbe fatto le stesse cose.
Dopo un’ora stavo per addormentarmi, e per tenermi sveglio accesi la radio. Ogni tanto davano qualche notizia di ciò che accadeva nel mondo, al contrario di ciò che stavo vivendo io, che accadeva ma non era una notizia. Non avevo fretta, e poi Alice non poteva restare in quel posto in eterno: non era casa sua, prima o poi sarebbe dovuta uscire. E infatti verso l’una e mezzo comparvero Alice e un vecchio playboy con un vestito di lana grigio antracite e i pantaloni con il risvolto, il bavero della giacca alzato, una sciarpa nera annodata come nelle riviste e gli occhiali da sole.
Ci sono volte in cui non devi pensarci molto, in cui tutto assume improvvisamente un ordine e i pezzi iniziano a combaciare senza troppe storie. Avevo di fronte a me Sebastian Bernhardt, l’Angelo Nero, come lo chiamava Sandra. Lo riconobbi immediatamente, come se la sua presenza avesse acceso una lampadina dentro di me. Quel giorno era un giorno perfetto: il più invisibile di tutti gli invisibili e probabilmente il più importante della Confraternita, colui che aveva l’ultima parola su tutto, era a pochi metri dal mio naso. Lui e Alice camminavano chiacchierando lungo la strada. Si sentivano giovani e belli, sicuramente molto più di quanto fossero in realtà. Misi in moto e mi avviai verso la fine della strada in cui avevano svoltato. Li vidi seduti sulla terrazza coperta di un ristorante affacciato sul mare. Lui le prendeva la mano e la baciava e lei rideva. Forse erano amanti: questo avrebbe spiegato perché Alice aveva il controllo del farmaco portentoso e perché proprio in quel momento Otto si stesse intrattenendo con il golf. Poi ebbi l’impressione che stessero parlando di una questione seria. Presero due insalate e due caffè e dopo un’ora tornarono indietro. Rimasi a metà strada, un bel po’ prima di loro, che si fermarono davanti al cancello del complesso senza smettere di parlare. Soprattutto lui, che sembrava darle degli ordini mentre lei annuiva. Dopo cinque minuti uscì Frida e lei e Alice salirono sull’Audi.
Non le seguii più. Sarebbero tornate a casa di Alice, sarebbero entrate direttamente nel garage e io non avrei potuto verificare se avrebbero tirato fuori o meno la scatola che avevano preso al Transilvania. Probabilmente l’avevano consegnata a Sebastian.
Non sapevo che altro fare. La cosa mi dava sui nervi, ma non mi veniva in mente niente. Guardare mangiare Alice e l’Angelo Nero mi aveva risvegliato l’appetito, così andai al mio solito bar e ordinai il menu completo: lenticchie e seppie alla piastra con acqua naturale, per dolce crema al cucchiaio. Uscii abbastanza sazio e intenzionato a farmi un riposino finché non fosse stata ora di andare a prendere i risultati delle analisi.
Alle cinque e mezzo non ne potevo più e andai al Transilvania, il negozio di oggettistica. Mi avrebbe aiutato a calmare l’ansia: l’attesa dei risultati del laboratorio mi rendeva nervoso.
C’era solo un commesso di circa trentacinque anni che non aveva molto da fare. Gli dissi che volevo fare un regalo ma non sapevo cosa comprare.
«Qui abbiamo artigianato rumeno e balcanico», spiegò senza avere l’aria di essere minimamente interessato al negozio e agli oggetti che aveva esposti. L’accento era rumeno.
Guardavo i prezzi di quegli oggetti, da molti dei quali non avevano neanche tolto la polvere, e comprai una scatoletta di lacca abbastanza carina per regalarla a Sandra. Con la scatoletta in mano continuai a dare un’occhiata, perdendo tempo per vedere se succedeva qualcosa di interessante. Il commesso ricevette una telefonata e nel suo discorso lungo e concitato, che ovviamente non capivo, colsi i nomi di Frida e Alice. Potevo anche essermelo immaginato: magari il mio desiderio di sentire qualcosa di familiare mi aveva portato a credere di averli sentiti. Poteva anche darsi che in quella scatola di cartone si fossero portate via semplicemente qualche articolo del negozio, anche se era strano che non li avessero fatti impacchettare.
Il rumeno prese di malavoglia la scatoletta laccata, la incartò pigramente e, siccome avevo solo quindici euro spicci, disse che non importava, che preferiva che gliene dessi solo quindici piuttosto che dover strisciare la carta. Quel posto sembrava proprio una copertura. Se erano incaricati di custodire il prodotto, quasi sicuramente dovevano tenerlo sul retro fin quando Alice non andava a prenderlo. Alice doveva custodire e smistare quel tesoro in virtù del suo rapporto speciale con Sebastian. Mi chiesi un’altra cosa: Fredrik, Karin e gli altri sapevano che quello era il punto di raccolta? Poi mi dissi che anche se lo avessero saputo probabilmente non avrebbero osato fare proprio niente, poiché se ad Alice era stato concesso un tale privilegio era perché aveva altri poteri, che le avrebbero coperto bene le spalle.
Il laboratorio era un po’ fuori, vicino alla zona industriale. Le attrezzature erano nuove e moderne, anche se il direttore aveva quasi la mia età. Mi chiesero di tornare dopo un’ora, poco prima dell’orario di chiusura: il direttore voleva vedermi personalmente e spiegarmi i risultati delle analisi. I pazienti seduti in sala ad aspettare i loro risultati mi rivolsero uno sguardo carico di pietà mista a un certo sollievo. Pensavano che stessi davvero male, visto che a darmi conto dei risultati sarebbe stato il direttore in persona, ma al tempo stesso preferivano che una cosa del genere capitasse a me anziché a loro.
Feci una passeggiata in zona, ammirando l’originale profilo dei nuovi edifici industriali: non avevano niente a che vedere con quei capannoni vuoti in cemento armato che poi venivano riempiti di macchinari pieni di morchia. Adesso era tutto vetro, acciaio, plastica, luce. Ero nervoso. Stavo per vivere un grande giorno. Entrai in un magazzino e vidi come tagliavano le tavole. C’era un buon odore di pino segato. A Raquel sarebbe piaciuto molto quel posto, le piaceva tutto quello che serviva per la casa, il legno da montare e dipingere, le ceramiche da decorare, il cuoio da tingere. Mi faceva diventare pazzo con quelle cose. Feci un giro, e fu un peccato pensare che non sarei stato mai più un cliente di quel magazzino, che gli anni in cui cose del genere avevano un senso li avevo sprecati in un altro modo. Bellissime cassapanche che dovevano solo essere smerigliate, dispense che imitavano quelle di un secolo prima. Mi sedetti su una sedia di paglia ad aspettare. Giovani coppie che si entusiasmavano davanti alle librerie ancora da verniciare mentre cercavano di tenere buoni i bambini. Studenti che cercavano un tavolo economico con qualche difetto per una sistemazione provvisoria. Al mondo non c’era un posto migliore per aspettare il passato, i risultati di quelle analisi che mi riportavano a un tempo che non esisteva più ma cercava di continuare a esistere a tutti costi. Tutto avrebbe dovuto avere l’odore di quel magazzino.
Quando mancava un quarto d’ora mi diressi verso il laboratorio, ammirando gli alberi e la gente che lavorava, che si guadagnava da vivere facendo qualcosa che gli altri potevano vedere e toccare.
Trovandomi di nuovo in quell’oasi di pace, sentii lo stesso nervosismo di quanto mi facevano gli esami al cuore. Il dottore mi fece entrare nel suo studio di mogano e chiuse la porta. Era molto gentile, mi chiese come stavo e parlò del clima. Sembrava che avesse tutto il tempo del mondo. Alla fine aprì una cartellina che conteneva i tipici fogli con i risultati delle analisi. Negli anni me ne avevano fatte così tante che le riconoscevo al volo. “Almeno”, pensai, “sono riusciti a estrarre un po’ di liquido.”
«Dunque», disse, «dovremmo ripetere le analisi. Abbiamo lavorato su un campione minimo, e presumiamo sia stato contaminato, perché non abbiamo trovato niente di speciale.»
«Niente?»
Alzò le spalle.
«Diceva che suo figlio si iniettava questa roba? Non ha niente di cui preoccuparsi. È un potente complesso vitaminico. »
«Dottore, io non sono un medico, anche se passo la vita fra i medici, perciò glielo chiederò senza troppi giri di parole: è possibile che questo composto produca un effetto ringiovanente e che conferisca l’energia di un giovane a un anziano come me?»
«La concentrazione di vitamine e minerali come la fosfatidilserina, la taurina, le vitamine del gruppo B e altre è molto elevata. Certamente queste sostanze possono migliorare la concentrazione e la sensazione di vitalità, ma non fanno miracoli. Comunque è senza dubbio un composto molto più efficace di quello che prendono abitualmente gli studenti. A volte», continuò, «la gente paga fortune per preparati comunissimi da ingerire o da assumere per uso locale. Mi riferisco ai cosmetici, per esempio. Si lasciano ingannare con l’illusione di riuscire a diventare più giovani o intelligenti. Spero che suo figlio non sia uno di questi. Per la maggioranza delle persone quello che funziona davvero è l’effetto placebo.»
Il dottore si mise comodo sulla poltrona. Come a tutte le persone della mia età, gli piaceva farla lunga.
«La morte ci fa orrore, ci fa venire il panico», disse. «Ma è una solenne sciocchezza e una perdita di tempo, perché la morte non manca mai al suo appuntamento. È puntuale. Non la possiamo fermare né trattenere. Ritardare? Forse, non ne sono sicuro. E sa perché? Perché la morte è buona, è necessaria per la vita. La morte di una cellula significa rinnovamento: se non ne morissero alcune e non ne nascessero altre non potremmo vivere. Dica a suo figlio di mangiare bene, di fare esercizio fisico, di fare l’amore ogni volta che può, di godersi la vita e di non complicarsela troppo.»
«E io, dottore? Lui è giovane, ma io...»
«La stessa cosa, ma in piccole dosi.»
Al momento di pagare dovetti tirare fuori la carta d’oro. A quanto pareva avevano dovuto affinare molto le analisi e due assistenti avevano dovuto lavorare fino all’alba. Mi costò duemila euro. Mi chiesero se avevo bisogno della fattura. Risposi che non era necessaria.
Uscii da lì più sconvolto di quando mi avevano comunicato che dovevano sostituirmi una valvola al cuore. Dopo tutto, gli esperimenti sadici del dottor Morte o di Himmler non erano serviti a trovare l’immortalità o l’eterna giovinezza, e nemmeno ad allungare la vita. Travasare l’intruglio nelle fiale e distribuirlo in un negozio di copertura chiamato Transilvania era solo una trovata scenografica, una truffa.
Non vedevo l’ora di raccontarlo a Sandra. A furia di parlare con il dottore si erano fatte le otto e un quarto e non volevo pensasse che non ero riuscito ad andare all’appuntamento. Mi si era accelerato il battito e in macchina bevvi un bel sorso d’acqua e cercai di tranquillizzarmi. Se mi fosse successo qualcosa, loro avrebbero continuato a dormire fra due guanciali, pensando fino alla fine dei loro giorni di essere degli eletti. “Controllati”, mi dissi, e mi avviai in direzione del Faro.
Avevo la cartellina con le analisi in mano e pensavo di proporre a Sandra di andarcene in un altro posto, nel caso avessero seguito lei o me. Avevo pensato che saremmo potuti andare separatamente in una chiesa che si trovava alle porte del paese. Lì saremmo stati tranquilli. Ma quando arrivai non c’era più. Erano le otto e mezzo, e a volte Sandra non aveva margini di manovra per colpa dei maledetti capricci di Karin. Andai fino alla pietra C. Non c’era nessuno nei paraggi, per cui la sollevai. Niente. Nessun biglietto. Non era venuta, in caso contrario avrebbe lasciato qualche segnale. Andai a bermi una tisana per prendere un po’ di tempo.
Mi sedetti al nostro solito tavolo e si avvicinò la cameriera.
«È venuta e se ne è andata.»
«Prego?» dissi.
«La ragazza, è venuta e non ha aspettato neanche dieci minuti. Non voglio impicciarmi di cose che non mi riguardano, ma non perda tempo. Quella ragazza non la vuole.»
Stavo per scoppiare a ridere.
«E come lo sa?» le chiesi.
«È una bambina, potrebbe essere sua nipote. Si guardi: al suo posto uscirebbe con un vecchio come lei?»
«Grazie per il consiglio, prenderò una camomilla.»
«Le succhierà tutti i soldi», continuò quella donna, che aveva una cinquantina d’anni portati male e che non volevo offendere per paura di cosa sarebbe potuto succedere.
«Be’, avrebbe dovuto scegliere qualcun altro, perché io di soldi non ne ho molti. Vado avanti a suon di camomille e di menu a nove euro, e quando pranzo non ceno.»
«Per quella è già qualcosa, mi creda.»
«Non crede anche lontanamente possibile che possa essersi innamorata di me?»
«Nemmeno a pagarla. Se si fa di queste illusioni è un pazzo. È patetico che le passi anche solo per la testa.»
«Per la testa passano molte cose. Non mi dica che non ha mai pensato a qualche attore famoso che non ha nessuna possibilità di conoscere.»
«Un attore? Per esempio chi?»
«Un attore, be’... non so, per esempio Tyrone Power.»
«Chi? Quello è morto da un pezzo, non so neanche che faccia avesse.»
«Era il classico gentiluomo.»
«A quella ragazza non piacciono i gentiluomini, e non le piace lei. Torni a casa. Stasera non me ne sarei andata di qui con la coscienza tranquilla se non glielo avessi detto.»
Le stavo per rispondere che mi era sempre sembrato stesse dalla parte di Sandra e che era stata una vera sorpresa scoprire che si preoccupava per me.
Mi fece piacere che la camomilla fosse bollente, così avrei perso dell’altro tempo: non appena Sandra avesse potuto, sapevo che sarebbe uscita di corsa per raggiungermi. Doveva essere successo un caso di forza maggiore se non era venuta all’appuntamento più importante che avevamo e che probabilmente avremmo mai avuto, la scoperta del Gran Tesoro. Senza Sandra, senza quella donna con le palle, sarebbe stato impossibile scoprirlo. Un giorno avrebbero dovuto riconoscere il suo valore. Tutto ciò che avevo fatto io a confronto di quello che aveva fatto lei era niente, perché io ero pieno di odio verso quella gente ed ero perennemente spinto dalla sete di vendetta personale, lei invece lo faceva per tutti. La cameriera non aveva la più pallida idea di chi fosse la persona di cui parlava e che aveva giudicato capace di una simile bassezza. Quando mi portò il conto la guardai con disprezzo.
Scrissi su un tovagliolo la parola «Bingo». «Attendo messaggio e tue notizie.»
Mi infilai il tovagliolo in tasca, presi la cartellina e uscii. Mi sedetti un paio di minuti sulla nostra panchina e poi misi il tovagliolo sotto la pietra C.